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Il fascino discreto dell’altra costiera

Tra Positano e Amalfi il cuore antico della penisola

02-Agosto-2018

Parlare di penisola sorrentina e di costiera amalfitana vuol dire descrivere qualcosa che le parole difficilmente possono descrivere appieno.

Famose nel mondo le due parti della costa campana una sul golfo di Napoli l’altra su quello di Salerno sono due scrigni pieni di ricchezza che viene dalla storia, dall’arte, dalla natura. Sono non soltanto un itinerario turistico che richiama da ogni angolo del mondo, ma anche un percorso dell’anima, dei sentimenti, dell’operosità umana in condizioni di altissima difficoltà tra piccole insenature, pendii scoscesi, pochissime aree coltivabili. Una terra bellissima dove la natura sembra aver raccolto ogni genere di bellezza ma reso la sua fruizione complessa e ardua. Certamente parliamo di luoghi dove il turismo e i suoi riti hanno reso da decenni più semplice la vita di chi villeggia, ma l’esistenza della popolazione locale, pur con le debite differenze, segue in gran parte ancora ritmi antichi soprattutto nel rapporto con la natura matrigna e pure generosa che riempie le balze di agrumi, di vitigni che sembrano strappati alle rocce.

Sorrento, Sant’Agata dei due Golfi, Positano, Amalfi non hanno certo bisogno di essere raccontate o descritte. Di questi luoghi si sa tutto o quasi, la pubblicistica turistica e fiumi di inchiostro da decenni ne raccontano la storia, l’evoluzione, la realtà. Quel che ci interessa, dunque, è provare a parlare di luoghi anch’essi conosciuti ma che restano sempre un po’ sullo sfondo, dei quali si parla meno ma che rappresentano e per molte ragioni vere eccellenze e costituiscono quella che potremmo definire l’altra faccia, più discreta, della costiera che dalla punta della penisola descrive l’ampio arco verso il golfo di Salerno e si trova incastonata tra le altre perle che fanno della costiera amalfitana uno dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Quasi a distanza simile tra Positano e Amalfi, dalla costa e sino all’interno sui monti Lattari, si dispiega un mondo a parte anch’esso carico di fascino naturale e di valore culturale.

Tre i punti di interesse dei quali parliamo. Conca dei Marini e in particolare l’antico monastero di Santa Rosa, oggi relais di charme. Furore, il paese che non c’è un piccolo arcipelago di case sparse sulle colline e un antico fiordo famoso nella storia del cinema. Tramonti, un paese di frazioni e di lavoro strappato alla natura nel centro dei monti Lattari.

Conca dei Marini ha origini piuttosto incerte; si ritiene che sia stata fondata dai Tirreni, lo stesso popolo che sbarcò poi sulle coste dell’Etruria, con il nome di Cossa e, data la conformazione ripida ed irregolare dell’entroterra, i primi abitanti si dedicarono subito alle attività marittime. Nel 272 A.C. (481 ab Urbe condita) venne conquistata dai Romani, che la trasformarono in colonia; il piccolo borgo marinaro seguì poi le vicissitudini della repubblica romana e poi dell’impero, sino al suo disfacimento dopo il quale lentamente finì nell’orbita della nascente potenza marinara di Amalfi.

Nel piccolo scrigno di Conca, il Monastero Santa Rosa spicca per la sua storia e per la sua meravigliosa posizione a picco sulla scogliera. Ed oggi è una delle dimore storiche più belle ed importanti della Costiera Amalfitana, che rispettando l’architettura, gli spazi, e i valori fondanti dell’antico rifugio religioso, in un insospettabile ma esclusivo hotel, ripropone il sapore delle antiche radici spirituali e la ricchezza della sua storia. Le prime tracce di costruzione di quello che diverrà poi il monastero si datano al 1681, quando le mura dell’antica chiesa di Santa Maria di Grado ridotta in rovine, furono donate dal comune di Conca dei Marini alla badessa sorella Rosa Pandolfo, discendente di una ricca e nobile famiglia italiana che da sempre aveva manifestato il desiderio di costruire, di fianco alla chiesa, un monastero per ospitare le “Sacre vergini”.

Nacque così, in una posizione che ha dell’incredibile su uno spuntone roccioso a picco sul mare l’edificio che venne dedicato a Santa Rosa da Lima, che aveva preso i voti del terzo ordine domenicano. Da allora e nel corso degli anni le suore furono di grande sostegno alla popolazione locale. Fecero ad esempio scavare un canale che dal Monte Vocito portava acqua al convento e da lì a Piazza Olmo, dove venne costruita una fontana per garantire l’acqua corrente agli abitanti di Conca e dove una lapide commemorativa ricorda ancora oggi questo nobile gesto. Le suore misero a disposizione della comunità le proprie conoscenze farmaceutiche, preparando medicinali e rimedi per le malattie più comuni. E divennero note anche per le loro doti culinarie: ad esse si deve la ricetta della famosissima sfogliatella Santa Rosa.

Le sorelle che si trovavano nel monastero erano in clausura e fu così che fu costruita accanto alla chiesa una ruota di legno: seppur rimanendo invisibili grazie all’anonimato che la ruota garantiva loro, poterono elargire rimedi farmaceutici o i famosi dolci alla popolazione e ai viandanti che in cambio donavano le proprie offerte. La storia cambia bruscamente intorno al 1866, quando la legislazione laica post unitaria nei confronti dei beni ecclesiastici, costringe l’insediamento religioso a traslocare. Per il monastero, simbolo e riferimento di Conca dei Marini, inizia un lungo periodo di abbandono e di rovina che si interrompe nel 1934 quando venne trasformato in un ostello esclusivo per l’epoca (uno dei 39 Relais Château in Italia) preservando la semplicità estetica tipica della vita monastica e nel quale nel dopoguerra furono ospitati tra i tanti personaggi come Jacqueline Kennedy, che vi si rifugiava durante le sue vacanze in costiera o come Edoardo de Filippo.

La storia e i mutamenti del mondo intervengono ancora dopo alcuni decenni quando alla morte dell’ultimo discendente della famiglia proprietaria e alterne vicende, il luogo fu nuovamente abbandonato e dimenticato. Questo sino al 1999, quando la cittadina americana Bianca Sharma, nel corso di una crociera con amici nella Baia di Salerno, si trovò di fronte allo spettacolo che la costruzione sulla rupe scoscesa a picco rappresenta e decise di acquistare l’edificio e trasformarlo in uno dei migliori alberghi del mondo. Un lavoro, che da allora si protrae sino al 2012, con le solite alterne vicende che contraddistinguono la sua lunga storia, riesce a trasformarlo in un autentico luogo di ristoro, in un’atmosfera sempre rarefatta e rispettosa del senso di umana religiosità e contemplazione che l’antica origine ma anche la natura spettacolare continuano a trasmettere.

A non molti chilometri e potremmo dire a moltissime curve spettacolari sulla stretta strada costiera, ci appare o, meglio non ci appare, Furore … il paese che non c’è! Può sembrare una trovata turistica, ma non lo è. Furore infatti non ha un borgo, un punto di riferimento – che è nei piani coraggiosi e lungimiranti del suo sindaco Raffaele Ferraioli titolare dell’Hostaria di Bacco e insignito del Premio Idealeamico, per la prima volta a un ristorante del Sud Italia, dall’Associazione Collezionisti del Piatto del Buon Ricordo – e viene sovente identificato con l’incredibile fiordo che imboccata la valletta centrale porta sino al mare in uno scenario che lascia a bocca aperta. In realtà potremmo dire che si tratta del primo paese diffuso della storia.

La bellezza dei luoghi è tale che non si fatica a immaginare come i primi a scoprirne le possibilità abbiano immaginato di fermarsi e realizzare quello che ora ci appare! Un grappolo di case non messe lì a caso, ma seguendo la sinuosità della costa e le possibilità di comunicazione ancorché di grande difficoltà e di utilizzazione agricola della balze scoscese e dei terrazzi naturali sull’azzurro che ospitano limonaie dai frutti spettacolari e vigne ai limiti delle possibilità umane. In origine si narra che l’insediamento abitativo nacque come un semplice casale della Regia città di Amalfi. Il luogo e il suo nome – attribuito prima al solo fiordo – emerge dal completo anonimato con la compilazione del catasto carolino del 1752 che restituisce l’immagine di una piccola comunità costiera sparsa sul territorio. In realtà Furore è stato, per la sua particolare conformazione fisico-geografica, una roccaforte inattaccabile anche al tempo delle incursioni saracene e il Fiordo ha rappresentato un porto naturale, nel quale si svolsero fiorenti traffici e si svilupparono le più antiche forme di attività industriali: cartiere, mulini alimentati dalle acque del ruscello che scendeva dai Monti Lattari.

Oggi Furore sta seguendo la strada che la storia gli ha assegnato e che il cinema italiano in qualche modo gli ha consegnato (ricordiamo la permanenza e il lavoro in questi luoghi di Roberto Rossellini e di Anna Magnani, cui è dedicata una sala nel percorso dedicato al ricordo di quegli anni). Resta un luogo non luogo, un paese non paese, ma è divenuto, anche grazie al ricordo di “Nannarella”, il paese dell’amore, o meglio quel non paese nel quale però la fiamma dell’amore e della passione sembrano trovare alimento, proprio come amore e passione non seguono mai luoghi segnati o percorsi stabiliti!

A questo punto, lasciamo la costa così suggestiva e ricca di storia, di passioni, di antiche leggende e ci inoltriamo verso l’interno, verso le balze e le valli di quei monti Lattari che fanno da corona, limite e dorsale alla stessa penisola. E, dopo un lungo e complesso girovagare, dopo curve e controcurve senza la visione del mare, arriviamo in un luogo inimmaginabile. In un verde ricchissimo e che tutto circonda, siamo nella vallata di Tramonti, luogo/non luogo (anch’esso come Furore, un unicum di queste contrade) che come si afferma nella “Cronaca Amalfitana”, prende il nome dalla configurazione della zona in cui è situata, terra tra i monti, da cui “Intra Montes” e di qui appunto Tramonti.

La storia di questi luoghi è intimamente legata a quella della costa al di là delle montagne e ad Amalfi, Seguendo le incredibili vie della storia della nostra penisola scopriamo che la prima urbanizzazione del luogo si fa risalire ai picentini, antico popolo italico del gruppo Osco-Umbro, poi mescolati ad Etruschi ed altri popoli. Quando i Romani, con una dura guerra sconfissero i Picentini, questi scapparono dai luoghi dove era l’antica “Reghinna” (l’odierna Maiori) per sfuggire ai nemici e si rifugiarono verso i monti, nella valle, ove vi edificarono i primi casali nella conca che sarà, poi, chiamata con il nome di Tramonti. Tramonti ha avuto un ruolo importante nella genesi della Repubblica Amalfitana: essa fu, infatti, coinvolta insieme con le popolazioni rivierasche nella difesa della città contro il longobardo Arechi II e nelle alterne vicende contro l’ambizioso Sicardo, fino a quando Amalfi, nel 839, fu proclamata Repubblica.

Tramonti ha contribuito in modo rilevante alla sua grandezza e ha usufruito dei suoi traffici, del suo commercio e delle sue ricchezze per il proprio sviluppo: non sarebbe altrimenti possibile spiegare il gran numero di antiche chiese (l’antichissima rupestre di Gete), di monumenti antichi. La fine del dominio della repubblica marinara inserì questi luoghi nel confuso e complesso mosaico che dai Normanni passò per gli Svevi, gli Angioini, quindi gli Aragonesi, sino alla costituzione del Regno delle due Sicilie di cui queste terre seguiranno le sorti sino all’annessione al Regno d’Italia. Di queste secolari vicende Tramonti serba il ricordo, così come i segni della potenza della natura e dei fenomeni tellurici che ne hanno reso il territorio fertilissimo. Tra le particolarità – tante da renderne difficile anche una catalogazione – un posto a parte spetta certamente alla vite che grazie alla natura vulcanica dei terreni ha permesso e conservato un piccolo per dimensioni ma inestimabile tesoro di biodiversità: un vitigno autoctono sconosciuto, il Tintore, varietà anonima fino ai primi anni Duemila perché mai registrata. Dal 2003 Tramonti è una sottozona della Doc Costa d’Amalfi, anche se il vitigno Tintore entra ufficialmente nella denominazione con la vendemmia 2010.

Ancora oggi – si legge nelle riviste enologiche specializzate – si possono trovare ceppi ultracentenari produttivi e a piede franco, ossia quei vitigni che non sono mai state innestati su radici americane, in seguito alla piaga della Phillossera Vastatrix che alla fine del XIX secolo aveva contagiato tutte le superfici vitivinicole europee. Il Tintore, appunto, scampò miracolosamente alla fillossera e questo lo rende un inestimabile tesoro di biodiversità. La pianta è allevata su fitte trame di pergolati sorretti da impalcature realizzate da pali di castagno, un tipo di allevamento legato alle genti etrusche che hanno popolato l’intera zona. Il territorio è attraversato da continue brezze marine che si combinano ad altri venti di terra che unendosi vanno rinforzare il vento di Tramontana, termine legato per assonanza al nome Tramonti, e che in realtà proviene dal latino Triventum, paese dei tre venti. I pochi ettari di vigneto, sono posti ad altezze che variano da 250 a 700 metri di altitudine dove le escursioni termiche stabiliscono, senza dubbio, le caratteristiche organolettiche del vino. Un’esperienza che non può essere tralasciata soprattutto perché rimanda alla storia che è passata in questi luoghi appartati e ne costituisce ricca testimonianza.

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